IL POTERE CURATIVO DELLA PROCEDURA IMMAGINATIVA

Prefazione a cura di Giuseppe Toller.

Giuseppe Toller
Docente Ordinario della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia con la Procedura Immaginativa.


In un processo psicoanalitico viene valorizzato, con accentuazioni diverse da parte dei vari Autori, ora l’uno, ora l’altro dei fattori che ne costituiscono la struttura: la profondità dell’insight, l’interpretazione, l’attenzione empatica, il sostegno, per citare i più importanti.

Più difficile è stabilire i criteri su cui si fondano la sensibilità diagnostica e l’efficacia terapeutica di una ben definita metodologia. Quella che viene qui presentata, frutto dell’attività teorico-clinica di Renzo Rocca e di Giorgio Stendoro, è stata preceduta e preparata da un lungo percorso che inizia con Robert Desoille, e con l’applicazione in campo clinico del metodo da lui elaborato: il “Rêve-Eveillé Dirigé” (“Sogno da svegli guidato”).

Concetto fondamentale di Desoille fu la possibilità di utilizzazione dell’Immaginario come mezzo atto a rappresentare alla coscienza sentimenti e contenuti affettivi; il movimento spaziale verificantesi nel Rêve venne riconosciuto come mezzo potente di trasformazione e di ristrutturazione del mondo interiore, e, in quanto tale, valido strumento terapeutico. Il pensiero di Desoille subì, nel periodo che si estende dal 1923 al 1966 una complessa rielaborazione, sia sul piano concettuale, sia sul piano metodologico. Fu però l’evoluzione teorico-clinica, promossa negli anni successivi dai suoi ex allievi, a conferire carattere analitico all’attuale formulazione metodologica. Quale ne fu il criterio ispiratore? In breve, fu l’intuizione secondo cui i contenuti affettivi legati all’immagine svelano il loro significato se sottoposti ad un’analisi approfondita. Fu tuttavia evitato uno scoglio, che sembrerebbe sfuggito all’osservazione e, soprattutto, alla prassi freudiana: la riduzione dei contenuti inconsci a dato cognitivo.

Ha scritto, a questo proposito, Bachelard (1943): «La psicoanalisi classica si è spesso servita della conoscenza dei simboli come se i simboli fossero concetti. Si può perfino dire che i simboli psicoanalitici sono i concetti fondamentali dell’indagine psicoanalitica. Una volta che il simbolo è stato interpretato, una volta che se ne è trovato il significato “inconscio”, passa al rango di puro strumento di analisi, e non si pensa più di doverlo studiare nel suo contesto e nelle sua varietà…». Non soltanto il pericolo è stato evitato: contenuti ed istanze affettivi, nel loro correlarsi con le immagini, sono diventate il fulcro della metodologia attuale, permeandone i dettagli più propriamente “tecnici”, e quelli caratterizzanti il setting e la relazione analista-paziente. Si è così sviluppata una corrente di studi e di ricerche, saldamente ancorati ad una particolare concezione antropologica, e aperti ai contributi delle scienze sociologiche. La concezione antropologica, sostanzialmente umanistica, attinge da diverse fonti.

Vi si può riconoscere il pensiero dell’Antropoanalisi, articolato nei concetti base della con-presenza (Mitdasein), e dell’“Essere-nel-mondo” (In-der-Welt-sein), della unità tra umana presenza e mondo (in quanto lo abita), concetti cari a Binswanger (1973). Vi si ravvisano gli apporti della Fenomenologia con i suoi classici temi: l’uomo, che è al mondo coi suoi simili, la relazione individuo-ambiente, la spazialità, intesa come ambiente che avvolge, e a cui il soggetto si apre, la temporalità, il corpo (Leib), inteso come organismo vivente e aperto al mondo, le cose, comprese nel loro significato (Galimberti, 1992). Ma, soprattutto, Rocca e Stendoro (2000) avvertono nella società attuale «l’umiliazione dell’affettività e della spiritualità…» e ne cercano, con fiducia e con impegno, i rimedi. I contributi sociologici sono diventati, ad opera di figure altamente rappresentative – in primis Fromm e la Horney – componente ineludibile del corpus dottrinale psicoanalitico.

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