UNA FERITA APERTA

“…non devo farmi illusioni. Dentro di me, là dove l’inconscio scatta le sue fotografie, io custodisco delle immagini di cui non riesco a liberarmi. Una ferita aperta…”

A 13 anni, Gianni è vittima del tabù della pedofilia perpetrato dalla sua famiglia. Una piaga di ripetuti abusi sessualivissuti in casa sua. Tenta di aggirarli, mascherali per una questione di sopravivenza. Si difende con l’idea che tutto ciò non è mai successo. Ma la seduzione, la violenza e i giochi erotici particolari dell’abusante continuano fin quando la sua angoscia supera i livelli di guardia. Allora i suoi impulsi violenti, l’infelicità, le fantasie sessuali e i sentimenti negativi lasciati nella profondità del suo animo dal pedofilo lo spingono nella decisione di agire da solo contro la tristezza e la realtà di una possibile vita deviata e tortuosa. Gianni è solo ma riesce a cercare sé stesso attraverso la psicologia e l’affetto di alcune persone che gli sono vicino per dieci anni della sua vita. Momenti drammatici, brutali e tristi di solitudine  vissuti nella cornice di Milano, di Lugano e della Toscana. Gianni riscopre la nonna, una copia di amici e lo psicoterapeuta che lo aiutano a ritrovare l’amore, l’amicizia e il coraggio di reinserirsi con fiducia nella grande avventura della vita.

Recensioni

«L’abuso del fanciullo per scopi sessuali non è diverso dallo sfruttamento dei minori in campo lavorativo. In entrambe le situazioni i bambini sono vittime della violenza. Di recente il mondo scientifico ha cominciato ad interessarsi del tabù dell’adulto abusante e del minore abusato. È emerso che nel mondo milioni di minori di ambedue i sessi sono vittime di violenze sessuali che producono un giro d’affari astronomico, in continua crescita esponenziale».

LA RILETTURA  

Pensiamo che non vi fossero parole migliori di quelle tratte dalla Nota iniziale, stesa da parte degli stessi autori, per introdurre la delicata problematica trattata nel primo romanzo (Una ferita aperta, collana Narrare, Sovera Editore, pp. 160, € 12,00) degli psicanalisti Renzo Rocca e Giorgio Stendoro, dopo undici opere di carattere scientifico.

Una tematica dolorosa – In effetti, la violenza sulla parte più debole e indifesa dell’umanità, l’infanzia e l’adolescenza, è uno dei crimini più terribili che possano perpetrarsi. E ci è piaciuto anche l’accostamento tra sfruttamento del lavoro minorile e abusi sessuali sui fanciulli: sono due facce dello stesso volto di un pianeta e di una società violenta, dove il profitto predomina su ogni reale valore umano. Certamente il fenomeno della sessualità tra un adulto e un ragazzo, o addirittura un minore, non data da pochi anni.

Una storia lunga quanto l’umanità – In molte società dell’antichità, quale quelle greca e romana, o in altre orientali, rientrava nel costume “normale”. Tuttavia, molte erano le “disposizioni” che regolavano tale rapporto, tra cui l’esclusione dei veri e propri bambini. Con la vittoria, dal Medioevo in avanti, delle religioni monoteiste, in primis di quella cristiana, e delle loro rigide morali, tendenti a colpevolizzare ogni tipo di sessualità, paradossalmente, la pedofilia è diventata una vera e propria piaga: più diviene proibita e perseguitata, più è collegata al senso di colpa e all’ansia, confinata negli oscuri cunicoli delle “depravazioni”, tanto più si fa sregolata, dannosa e violenta. Oggi, come vedremo più avanti, tale pratica sessuale rientra anche nella logica del “mercato globale” e dello sfruttamento dei poveri: tutto si può ottenere, se si paga adeguatamente.

All’inferno e ritorno – Tornando a Una ferita aperta, il romanzo racconta la storia di Gianni Caccini, un giovane «alto, bello e decisamente sensuale», di 24 anni al tempo della narrazione del libro. Purtroppo, quando aveva 13 anni, un uomo, Paolo Sasso, legato a Elisabetta, la madre vedova del protagonista, dopo averlo ripetutamente molestato, lo ha violentato con la snaturata complicità proprio di Elisabetta. Grazie all’aiuto di varie persone – la generosa coppia Claudio e Maria, la nonna Anna, la fidanzata Sandra –, oltre che della psicoterapia, Gianni riesce a superare il trauma subìto e ad aprirsi interamente a una vita nuova, positiva e gratificante: «Mi metto a ridere: la musica è il solo piacere sensuale senza vizio. A casa ho voglia d’ascoltarmi un CD, così al buio, prima di prender sonno. Un Quintetto di Brahms, trasparente come un lago di montagna. […] Mi sento allegro e felice. Galleggio e mi va bene così».

Difficoltà, disagio e trauma: il brodo di coltura della violenza – Nella vicenda troviamo tanti elementi comuni a situazioni del genere. Innanzi tutto, come si è visto, il favoreggiamento della madre. Ancora, i bisogni “materiali” delle persone (Gianni ed Elisabetta, dopo il trasferimento da Firenze a Sesto San Giovanni, si trovano in difficoltà economiche). Inoltre, anche Paolo era stato violentato da piccolo. Infine, una famiglia problematica. Antonio, il padre di Gianni, si è suicidato; incantevole e straziante al tempo stesso l’ultimo ricordo del figlio: «Ricordo che avrò avuto sette, al massimo otto anni. Eravamo assieme quella sera che salivamo le scale di casa, mentre tenevo la mia mano sulla sua. Non so come è successo, ma la mia mano è scivolata via. Ho guardato il suo viso. Si è trasformato nell’istante in cui ho cercato di allungarla di nuovo. La sua mano si è mossa per stringere la mia per pochi secondi, poi m’ha detto grazie. E poi, con un brusco balzo si è spostato da dove eravamo, ed eccitato ha ridisceso le scale. Ha incominciato a correre all’aperto in barba alle raffiche di pioggia. Non lo sapevo, ma in quel momento si è allontanato per sempre da me, ammazzandosi dopo neanche un’ora». La madre è poco sensibile verso il figlio, presa com’è dai problemi quotidiani e dalla voglia di far denaro per far fronte alla vita o per migliorare socialmente: «Dopo la scomparsa di papà, la mamma non è stata più la stessa. […] Non mi permetteva di andare a giocare con i compagni di scuola. Mi teneva sempre lontano da tutti. Quando riusciva a trovare lavoro, lei mi lasciava chiuso a chiave nella mia camera semivuota. Non aveva tempo per badare a me: era meglio evitare questo argomento. Senza ribellarmi rimanevo per ore a guardare gli scarafaggi che si muovevano lentamente sulla superficie del mio soffitto».

La terapia fondata sulla «Procedura Immaginativa» – Non viene dato quasi alcuno spazio alla pratica terapeutica fondata dagli stessi Rocca e Stendoro, – la «Procedura Immaginativa» –, attraverso la quale il paziente riesce pian piano a superare i blocchi emotivi, a riappropriarsi della propria energia psichica e a operare positivamente per migliorare il proprio stato. È uno strumento fondato essenzialmente sull’immaginario, che può essere compreso da tutti perché non ha bisogno di traduzioni, in quanto si serve con spontaneità e naturalezza di simboli universali, legati alle più profonde emozioni dell’individuo. L’immaginario, come spazio offerto all’inconscio, è il luogo dove possono accadere le cose e dove avviene la fruizione dei fattori di mutamento sensibile: «Quando si fondono l’idea della speranza e l’idea dell’amore, ne nasce il senso di sicurezza. Cioè la base psicologica per controllare qualsiasi emozione».

La struttura del libro e le forme del narrare – Il romanzo non ha un procedimento temporale lineare. È diviso in quattro parti. La prima è collocata nella primavera del 2004 e vede al centro essenzialmente il protagonista, Gianni. La successiva delinea, in tre brevi capitoli successivi, le figure di Antonio, Elisabetta e Paolo. La terza, ambientata nell’estate del 1994, narra il momento della violenza e del soccorso a Gianni. L’ultima – novembre-dicembre 2004 – scioglie le vicende dei protagonisti. La narrazione è in terza persona, ma il punto di vista è mobile, spostandosi di volta in volta su quello dei vari personaggi. Solo in alcune sezioni, in cui Gianni, quasi con un monologo interiore, esprime i propri pensieri, le proprie riflessioni, il proprio vissuto, la narrazione è in prima persona; tali capoversi, che rappresentano una sorta di “a parte”, sono indicati col corsivo. Il tempo verbale centrale usato è l’indicativo presente, che riesce a rendere efficacemente la stringente drammaticità e l’incalzare degli eventi. Nell’opera, pur se sono presenti alcune scene “crude”, e nonostante l’intrinseca sgradevolezza della tematica trattata, grazie al pudore e alla sensibilità degli autori prevale la delicatezza e il rispetto umano. Semmai, se si vuol rinvenire qualche difetto, bisogna evidenziare alcuni schematismi, i limiti intrinseci all’intento didattico-didascalico, taluni scioglimenti narrativi forse romanzeschi, quasi fiabeschi, certa oleografia…

Elogio di Milano – Il romanzo è ambientato in diversi luoghi, legati alle varie vicende dei personaggi: Cortona, Firenze, Sesto San Giovanni, Milano, Lugano, Sri Lanka. Tuttavia, è indubbio che sia il capoluogo lombardo il centro spaziale ed emotivo del libro. In molteplici pagine, durante le belle passeggiate che fa Gianni, vengono descritti luoghi, monumenti, atmosfere, o esposti pezzi di storia della città meneghina (la Galleria Vittorio Emanuele II, corso Buenos Aires, il Duomo, il Castello Sforzesco, l’Arco di Trionfo, la Colonna di piazza San Babila): «Per oltre quattrocento anni, il Naviglio Grande è stato al centro dello sviluppo economico, commerciale e agricolo di Milano. A quei tempi le strade erano poche e insicure. Il mezzo di trasporto più adatto era senz’altro quello fluviale. Senza fiumi, o mare, Milano riceveva l’acqua dall’Adda che è distante diversi chilometri. I battenti della chiusa sono stati perfezionati da Leonardo da Vinci quando soggiornava presso gli Sforza…». In conclusione, ha ragione Gianni quando afferma: «Beh, non posso lamentarmi del mio insegnante di Storia al liceo. Mi ha dato la gioia di imparare: la cosa più sacra in questo mondo».

Sfruttare la povertà: da Taormina e Capri ai “paradisi sessuali” di oggi – Giunto in Sri Lanka, Paolo, per giustificare l’uso del corpo di minori, tra cui quello del bellissimo Raj, per i propri fini sessuali, compie le seguenti riflessioni: «“Che cosa c’è di male in ciò che facciamo? Dicono che noi violentiamo i bambini. In tutti i paesi poveri dove sono andato, i bambini son trattati da schiavi. Lavorano quattordici-quindici ore al giorno per qualche dollaro ed un pasto. Venendo con noi riescono a mantenere le loro famiglie almeno per un po’. Il lavoro è fare l’amore. Non dura quattordici-quindici ore per sette giorni alla settimana. Sono gli unici che non vanno a dormire piangendo per la fame e la stanchezza. Io ho sempre cercato di trattar bene quelli con cui sono stato. Davvero, non mi sento di avere alcun rimorso…”». Tale ragionamento, nel mondo di orrendo sfruttamento economico che viviamo, non è peregrino e ha un suo freddo fondamento. Probabilmente avrebbero usato le stesse argomentazioni il tedesco Wilhelm von Gloeden o il francese Jacques d’Adelsward-Fersen, aristocratici che, tra fine Ottocento e inizi Novecento, si trasferirono a Taormina e a Capri per esaudire, attraverso la loro arte (fotografo il primo, letterato il secondo) anche i loro bisogni omosessuali con ragazzini del luogo, ovviamente belli, innocenti, poveri e affamati. Incredibilmente, grazie proprio anche alla loro “pubblicità”, le due note località italiane iniziarono il loro “decollo” e cominciarono a essere mete predilette del turismo internazionale, per le stesse ragioni per cui lo sono oggi certe località tailandesi o brasiliane. Insomma, cambia sempre poco. Come si diceva all’inizio, i ricchi sfruttano i poveri: nel campo economico, lavorativo e persino sessuale. Quanta tristezza!

Rino Tripodi

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