Felice Perussia
Preside della Facoltà di Psicologia e Docente di Psicologia Generale Università degli Studi di Torino
All’interno del movimento psicologico si va radicalmente modificando la concezione di quella che è stata a lungo chiamata “psicoterapia”. Fortunatamente, è sempre meno diffusa tra i colleghi la pretesa di curare una malattia mentale, nel senso dell’azione di un medico che aggiusta una patologia ricostituendo lo stato di salute del paziente, a favore di un intervento che si propone piuttosto di accompagnare l’altro sulla propria strada evolutiva, attraverso un percorso di crescita che solo l’altro stesso può conoscere o riconoscere. Tale emergente impostazione, che pone l’individuo al centro della propria vita, può essere indicata anche come un crescente riferirsi, nel lavoro con l’altro, ad un intervento centrato sullo psicologo o sulla malattia. In tale prospettiva, uno dei termini utilizzati più frequentemente, al posto di psicoterapia, è quello di counseling. Indipendentemente dalle teorie cui eventualmente si richiama il singolo psicologo che si propone di svolgere una funzione di counselor, la concezione di fondo che caratterizza questa famiglia di approcci psicologici risente di alcuni dati ormai conclamati all’interno del movimento. Ho già sviluppato in altre sedi, cui mi permetto di rimandare per un’analisi più dettagliata del tema (Perussia F., 1994:.”Psicologo: Storia e attualità di una professione scientifica”; Torino, Bollati Boringhieri; Perussia F., 1999: “Cent’anni dopo: A che cosa serve la psicologia?”; Milano, Guerini e Associati), un tentativo di definire, sulla base di risultanze prodotte attraverso indagini sistematiche, il quadro di fondo che caratterizza l’intervento psicologico contemporaneo. In questa sede voglio solo ricordare qualche aspetto rappresentativo per il particolare modo di affrontare il tema sviluppato all’interno del libro, specie per quanto riguarda la cosiddetta psicoterapia. La ricerca, sugli esiti dell’azione psicologica, mette in primo luogo in evidenza come vi sia una certa efficacia dell’intervento attuato dagli psicologi ma senza che si producano effetti particolarmente clamorosi. I risultati positivi dell’intervento psicologico, in termini di cura e di riduzione del disagio che ha originato l’intervento stesso, sono relativamente limitati anche se vengono spesso rilevati (per una percentuale dei clienti che è nell’ordine del 60-70%). Riesce però arduo distinguere gli effetti dell’intervento psicologico, almeno in termini di rappresentatività statistica, dal miglioramento dei sintomi che sembra intervenire spontaneamente col tempo (nell’ordine del 40% dei casi non trattati) o dall’intervento di altri fattori. In linea di massima, l’efficacia dell’intervento detto psicoterapeutico pare dunque essere maggiore (ma non di molto) rispetto a quella prodotta da nessuna terapia o dall’aiuto informale offerto da non specialisti (amici, parenti, interlocutori della vita quotidiana). Il differenziale tra i miglioramenti con intervento (psicologico) e miglioramenti senza intervento (psicologico), in base ai molti dati appena ricordati, non sembra infatti andare oltre il 20-30% dei casi. I risultati della terapia non paiono variare in modo significativo da una scuola psicologica all’altra. Non è chiaro se, e in base a quali variabili, questi possano dipendere almeno in parte dalle caratteristiche personali dello psicologo, più che dalla sua formazione teorica specifica. In nessun modo si può affermare, sulla base di criteri oggettivi, che una qualsiasi forma di intervento sia più efficace di altre. Un altro fatto evidente, sempre rilevato attraverso indagini sistematiche, è la sostanziale continuità dell’intervento attuato, indifferente alla diagnosi relativa allo specifico soggetto. Più precisamente: la gran parte degli psicologi non produce diagnosi, quando prende in carico un individuo, se non nel senso che sviluppa delle ipotesi personali sulle sue caratteristiche (e se le tiene per sé). In sostanza: il tipo di intervento che lo psicologo organizza è determinato principalmente, e in modo ricorrente, dalla sua teoria-tecnica di riferimento e non varia in modo significativo da un cliente all’altro. Lo psicoanalista freudiano colloca comunque il paziente sul lettino e lo fa associare. Il bioenergetico lo induce comunque ad esercizi di rievocazione corporea. Il seguace dello psicodramma lo fa agire comunque da protagonista di una scena. E via dicendo. Con modeste variazioni, il sistema di approccio utilizzato non dipende dalla diagnosi (che generalmente non viene prodotta o si limita ad un colloquio di presa in carico), ma dalle convinzioni dello psicologo e dalle tecniche di cui ha competenza per via della sua particolare formazione. Un ulteriore dato infine, tra i molti che potrebbero essere ricordati qui, riguarda l’emergere delle procedure eclettiche e/o integrate, nella pratica molto prima che nella teoria, pur nel richiamo frequente di molti psicologi a scuole e psicologi eminenti. Benché vi siano alcune teorie storiche di riferimento (il linguaggio ed il codice della psicoanalisi, in senso lato, sono frequenti nel gergo psicologico), la maggioranza degli psicologi attivi, come dimostra ancora una volta la ricerca sistematica, dichiara di utilizzare nel proprio lavoro, molto più che un modello teorico preciso, un tipo di approccio eclettico (modelli che variano da un caso all’altro) oppure integrato (un misto di modelli vari ricostruiti in una visione unitaria del singolo professionista). Tutto questo per dire che si va sempre più affermando la convinzione secondo cui, nello sviluppo della persona, quello che si ritiene possa contare di più è la capacità autopoietica del soggetto. Ovvero: si è sempre più convinti che sia lui il motore primo della propria crescita. In tale prospettiva, la particolare tecnica utilizzata conta solo fino ad un certo punto. Per molti aspetti, un modello teorico vale l’altro, nel senso che ciò che conta maggiormente è mettere il soggetto con cui si sta interagendo nelle condizioni di potersi confrontare con sé stesso. E’ questo, fondamentalmente, l’unico vero stimolo creativo alla propria crescita.
Si affermano dunque forme attive di intervento, dove il cliente diventa attore e protagonista della sua stessa evoluzione, dove lo psicologo non è altro che il catalizzatore, lo stimolo, l’occasione (per l’altro che incontra) di trovare dentro di sé le proprie risorse. Lo psicologo si trova allora a svolgere principalmente una funzione di facilitatore, di mentore, ovvero di allenatore, per la naturale capacità di crescita del soggetto. Il suo compito è quello di permettere, all’individuo che gli chiede aiuto, di aiutarsi da solo, attraverso procedure di esercizio (ed esercitazione) della propria soggettività che gli permettano di superare i disagi che le vicissitudini della sua evoluzione personale hanno eventualmente prodotto in lui. Nello stesso tempo, l’esperienza che a lungo è stata chiamata psicoterapeutica (in ossequio a un modello stereotipale della medicina che non appartiene affatto allo specifico della psicologia) acquista un valore diverso e nuovo. Non si tratta infatti di curare, bensì di evolvere. Se, in un certo senso, è necessario essere definiti malati per venire curati, basta esistere come esseri umani per fruire utilmente di un intervento di crescita personale, che può eventualmente essere definito anche come counseling. Le tecniche utilizzabili per stimolare tale crescita personale, possono essere molte. La Procedura Immaginativa ne rappresenta un esempio molto interessante. Il lavoro di Rocca e Stendoro ne fornisce una presentazione, conformemente alla tradizione della psicologia attiva post-bellica, basata sopratutto sui casi avvicinati in vivo (sul seminario di formazione) molto più che su una rigida costruzione teorica. La condizione umana non è facilmente riconducibile a delle (pure molto stimolanti) teorie costruite a tavolino. Ciascun soggetto è genitore e formatore di sé stesso, secondo criteri che soltanto lui può conoscere, anche se spesso può giovarsi dell’incontro con l’altro per rendersene conto meglio. Le nuove procedure che il movimento psicologico va costruendo o affinando, e di cui questo libro rappresenta un esempio generoso, potranno aiutarlo in questo difficile,quanto promettente percorso.
Boris Luban Plozza
Docente di Medicina Psicosomatica, Facoltà di Medicina, Università degli Studi di Milano Coordinatore Incontri Internazionali di Ascona (Svizzera)
Questo libro costituisce la prima testimonianza di un organico ed originale piano di intervento della Procedura Immaginativa nella pratica consiliare. Il motivo dominante del testo è l’azione terapeutica di Rocca e Stendoro che può essere riassunto come profondamente partecipe e professionalmente rigoroso. La metodologia, esposta nel terzo Capitolo, mostra come affrontare la “domanda”, le “riflessioni”, il “rapporto umano” e l’ “osservazione nella terapia consiliare con la Procedura Immaginativa”. L’attenta rilevazione fenomenologica di quanto accade nello spazio terapeutico (Seminario V°), quasi cronaca diretta della dinamica operatore-utente, sottolinea la capacità di ascolto che diviene comprensione. La formulazione dei primi interventi verbali e non verbali, dedotti da tale comprensione, instaura la relazione di aiuto, Gli Autori, nell’accentuare l’attenzione sulla figura dell’operatore, traducono con particolare capacità il concetto psicoanalitico del Controtransfert in una metodologia a concreta operatività, teoricamente più semplice, ma non semplicistica. La risonanza emotiva, nel terapeuta, del percepito di “uno dei suoi cinque sensi” diventa, nello spazio terapeutico, la linea guida alla comunicazione profonda nonché strumento di scelta di un’Immagine a risonanza inconscia per il paziente. La scelta dello Stimolo Immaginativo Iniziale (così è definita l’immagine a risonanza inconscia nella metodologia in questione – Capitoli IX° e X°) avvia la Procedura Immaginativa ed è il cardine che permette di modulare il livello di profondità ed ampiezza, diversificando l’impiego in Counseling, in Psicoterapia ed in Psicoanalisi. Questa articolazione catalizza l’interesse di vaste aree di ricercatori: in Italia, infatti, oltre 200 Scuole si rivolgono all’Immaginario. Nella loro precedente opera “Una Psicosi Sconfitta” – (Ed. C.L.U.E.B., Bologna 1997) gli Autori, nel corso dell’esposizione di un caso clinico completo, sistematizzano (pag. 12-13) i risultati della ricerca su questa interessantissima ed originale teoria, sulla costruzione dello Stimolo Immaginativo Iniziale. Secondo il mio Maestro M. Balint: “Le diverse malattie possono essere considerate espressione dello stato affettivo del paziente, dei conflitti irrisolti e delle sue difficoltà di adattamento sociale”. Rocca e Stendoro affermano che in tale unità mente-corpo, interdipendente con l’ambiente, l’energia è libera di fluire all’interno di una distribuzione che ne condiziona lo stato di malattia o salute. Già nel 1993 il loro modello operativo si occupava della totalità dell’ essere umano, nella sua interazione socio-ambientale, e coniava la definizione Psico-Socio-Analitica del Rêve-Eveillé di Desoille. (p. 26-27, 122 di: Rocca R. e Stendoro G.: “La Procedura Immaginativa”; Masson, Milano 1993). Nel 1999, nel Seminario tenutosi all’Università degli studi dell’Insubria (Varese), gli Autori hanno presentato i loro studi sull’ “energia fontale”, origine vitale dell’unità mente-corpo, con dinamiche e implicazioni teorico-cliniche, sui concetti di salute e malattia. L’intervento sulla psiche attraverso la metodologia della Procedura Immaginativa, consente di modificare l’equilibrio di tale unità, migliorando, ad esempio, il recupero e la prognosi in Psicosomatica, in gravi patologie organiche croniche così come dopo gli interventi chirurgici. Proiettati nel Nuovo Millennio con un progetto di cooperazione integrata in protocolli medico-psicologici, Rocca e Stendoro, superano alcuni baluardi teorici di Psicoterapia e Psicoanalisi e sviluppano le potenzialità inespresse del pensiero di Robert Desoille (1890-1966).