Prefazione a cura di Nicola Montano.
Nicola Montano
Professore Associato di Medicina Interna Università degli Studi di Milano.
“Nessun uomo e’un’ isola” (John Donne, 1633)
Depressione, stato di ansia, attacchi di panico, non sono disturbi che interessano solo la sfera medica psicologico-psichiatrica, ma anche il clinico si rende sempre più conto dell’ importanza del riconoscimento e del trattamento di tali condizioni in ogni processo di guarigione da patologie organiche. Recenti studi epidemiologici, infatti, hanno messo in luce una forte associazione tra depressione e malattie cardiovascolari (cfr Cap 9). Il dato clinico rilevante che emerge da tali studi, non è solo il fatto che la presenza di depressione, sia maggiore che reattiva, si associa ad un’elevata mortalità ma anche che il suo trattamento si traduce in un miglioramento delle condizioni cliniche, della risposta alla terapia e della prognosi a medio-lungo termine in pazienti affetti da patologie croniche, tra le quali l’infarto miocardico, lo scompenso cardiocircolatorio. Per il clinico, quindi, è sempre più evidente che trattare il disturbo depressivo non riduce solo il rischio di mortalità ma permette addirittura di migliorare la prognosi e la qualità della vita (parametro spesso trascurato nell’iter diagnostico-terapeutico) di soggetti affetti da patologie organiche, cardiovascolari e di altro tipo.
I meccanismi biologici che sono alla base della relazione tra disturbo psichico e disturbo organico sono ancora poco chiari, anche se recentemente l’ attenzione dei ricercatori è rivolta a valutare le possibili alterazioni che la depressione determina a livello del sistema nervoso autonomo, che è quella parte del sistema nervoso che controlla le funzioni vegetative e costituisce l’ interfaccia con le funzioni cognitive superiori. Non è certo questa la sede per discutere ipotesi fisiopatologiche tuttora incomplete. Mi preme sottolineare, tuttavia, come alterazioni psichiche si manifestino anche a livello fisico e, viceversa, condizioni di malattia organica influenzino lo stato psichico in un rapporto strettamente circolare. Tale rapporto mente/corpo, che può apparire intuitivo nel vissuto esperienziale di ciascuno di noi, e sul cui riequilibrio si basano la maggior parte delle metodiche di medicina alternativa, rappresenta quasi una recente scoperta per il clinico occidentale che solo da poco ha iniziato a sensibilizzarsi sull’importanza fondamentale che tale interazione svolge nel determinare il benessere dell’uomo.
A mio parere, uno dei limiti della nostra medicina è quello di considerare, spesso, lo stato di malattia organica come qualcosa di esclusivamente fisico, in cui di volta in volta “riparare” il danno molecolare, cellulare, tissutale con interventi farmacologici e/o chirurgici: non si considera, però, l’ importanza che riveste, in questo processo di ricostruzione, la capacità di ciascuno di “aiutarsi a guarire”. Ciò non ha nulla a che vedere con la “self medicine” o “autoguarigione”, ma solo quella consapevolezza di sé stessi e del proprio stato psicofisico che ciascun clinico dovrebbe sforzarsi di far crescere nel paziente. Ogni clinico sa quanto sia importante stare in ascolto del malato, entrare in empatia con lui, raccogliere le sue ansie e trasformare le sue energie bloccate dalla paura in un processo attivo di sostegno alla guarigione. Spesso, tuttavia, non c’è abbastanza tempo, il medico deve correre, produrre: in quel momento l’alleanza medico-paziente viene meno e con essa parte dell’efficacia dell’intervento terapeutico. Non è forse proprio la rottura di tale alleanza che spinge un sempre maggior numero di persone verso le medicine alternative, approcci che sono sicuramente meno tecnologici e scientifici ma che meglio rispettano l’unità mentale e fisica dell’individuo?
Il titolo di questo libro “Imparare a guarire” è già un messaggio chiaro e lascia subito intendere la funzione attiva del soggetto, aiutato dal terapeuta a trovare dentro di sé la forza per “accettare di mettersi in ascolto del suo linguaggio interno” (cfr. Cap 3). Questo avviene però senza demonizzare l’utilizzo degli psicofarmaci che giustamente vengono considerati un fondamentale supporto, ma non il fine terapeutico (o meglio la fine, visto che molti addetti ai lavori considerano inutile il trattamento non-farmacologico e quindi si fermano solo all’intervento farmacologico). Recenti studi, eseguiti sotto l’egida del National Institute of Mental Health americano, hanno dimostrato che nella depressione il trattamento non-farmacologico, associato a quello farmacologico, è in grado di migliorare il tono dell’umore, ridurre la sintomatologia depressiva e diminuire il dosaggio degli psicofarmaci, attenuando così i loro effetti collaterali. Tale osservazione riveste un notevole interesse clinico. Rocca e Stendoro, infatti, colgono appieno il crescente problema sociale e clinico della depressione nell’anziano e nei malati cardiopatici (cfr Cap 4 e 9). Nella maggior parte dei casi questi soggetti sono affetti da patologie diverse per cui assumono numerosi farmaci, tutti necessari e gravati di effetti collaterali: in tali casi l’utilizzo di terapie non-farmacologiche sarebbe preferibile, almeno in prima istanza.
Risulta inoltre davvero apprezzabile lo sforzo che gli Autori fanno per far meglio comprendere i meccanismi fondamentali della Procedura Immaginativa, utilizzando storie esemplificative del percorso interiore compiuto da persone diverse che si sono sottoposte a questo tipo di terapia. I risvolti tecnici psicoterapici sono sicuramente più comprensibili agli addetti ai lavori (psicologi/psichiatri), ma anche il clinico rimane intuitivamente affascinato e interessato dal rapporto con la cura e la prevenzione della sofferenza psichica che la procedura dell’immaginario mette in atto.
Il grande poeta T.S. Eliot ha scritto che “….il genere umano non può sopportare troppa realtà”. Se consideriamo quindi la depressione come un eccesso di fuga dalla realtà, forse il percorso immaginativo trae la sua forza proprio dalla capacità di trasformare contenuti negativi di realtà in un vissuto interiore in cui il soggetto può ri-diventare il protagonista del proprio film (leggi vita) e avere accesso a quelle paure, ma anche speranze, più profonde che determinano il nostro sentire e, di conseguenza, le nostre azioni.